Sono fra i fondatori di Campobase, ma quando – qualche mese fa – gli impegni personali di Michael Rech lo hanno obbligato a lasciare temporaneamente l’incarico, ho accettato di guidare Campobase  per spirito di servizio e solo per questo periodo di transizione che doveva portare al congresso e alla nomina di un nuovo segretario. Speravo ed ero convinta che si sarebbe trattato di un impegno a tempo limitato. Nelle ultime settimane, ho capito che mi si stava preparando un bel tranello, che quella transizione di pochi mesi rischiava di diventare un po’ più lunga. Chi mi conosce, sa quante volte ho detto di no.

Ho cercato di evitare questa candidatura, ho anche cercato altre soluzioni: diciamo che la segreteria di un partito politico oggi non è ambizione coltivata da molti: c’è tanto da fare, il telefono e whatsapp continuano a suonare, tutti si aspettano qualcosa. Non sempre è facile rispondere a queste domande e a queste attese. Lo è ancor di più per me che non ho grande esperienza e perché – lo ripeto – sono cosciente che c’è  molto altro da imparare.

C’è soprattutto la difficoltà di dare alla politica un linguaggio nuovo; di stabilire nuove modalità di confronto e incontro; di far comprendere che la politica – come la intendo io – è dare alle persone la possibilità di costruire un futuro diverso da ciò che oggi è il presente.

Le pagine dei giornali di questi giorni, certo non aiutano: la politica ne esce ammaccata, subalterna – si legge – agli interessi economici di pochi gruppi e di poche persone. Saranno i giudici, alla fine dell’iter giudiziario, a dirci se questa immagine è un’immagine reale e in che misura. In ogni caso, mi permetto di ribadire che per me la politica “è altro” rispetto a tutto ciò che è emerso in questi giorni. L’interesse generale e il bene collettivo non devono mai soggiacere agli interessi economici di qualcuno. Non devono mai cedere il passo alla fame di profitto di persone che perseguono solo il proprio tornaconto. La politica, per noi, è fatta di regole, di percorsi chiari e trasparenti, di progettualità condivisa.

Un partito popolare, civico e territoriale

Tornando al nostro partito, voglio ringraziare Michael Rech per ciò che ha fatto in questi anni. Per realizzare Campobase, per usare un’immagine di montagna, siamo partiti da quota zero sul livello del mare. Abbiamo fatto una grande fatica a metterci in viaggio, le prime curve in salita ci hanno spaccato il fiato, gli zaini sembravano eccessivamente pesanti: troppe ambizioni per forze così limitate.

Abbiamo detto: andiamo a realizzare un Campobase dove tutti possano ritrovarsi, da dove partire insieme per un’idea più bella e condivisa del nostro Trentino.

E ci sono parole che declinano bene il nostro ritrovarsi.

Noi siamo un partito territoriale, abbiamo scelto di esserlo perché ciò che abbiamo sperimentato nelle Comunità dove viviamo ci ha cresciuti nella solidarietà e nell’idea che il bene comune, il rispetto l’uno dell’altro, le competenze e le capacità, singole e di gruppo, costruiscono una comunità che non lascia indietro nessuno.

Noi siamo un partito territoriale, ma siamo profondamente europei, perché come diceva Kessler, del quale onoriamo la memoria nel centenario della nascita, l’alternativa è quella di essere un “Trentino piccolo e solo”. Per questo parlo della responsabilità e della sfida di essere noi stessi, parte di un cambiamento che interessa tutto il mondo dove viviamo.

Per evitare questo rischio abbiamo solo una strada maestra: valorizzare l’innata cifra europea della sua Autonomia. Ciò vuol dire lavorare per costruire assieme a Bolzano e Innsbruck una vera e propria “Regione Europea”. Lo possiamo fare diventando soggetti propulsivi e sperimentali puntando ad una Regione Europea dotata di poteri propri, negoziati con Roma, Vienna e Bruxelles. Questa è la vera partita per una riforma dello Statuto di Autonomia, al di là degli adeguamenti di cui si parla, in questi mesi, spesso sottovoce, quasi fosse una cosa privata tra Roma e Bolzano.

Non Roma Trento e Bolzano…. Roma e Bolzano….

Noi siamo anche un partito civico. Un partito civico nasce dall’esigenza di rappresentare direttamente le istanze dei cittadini e del territorio, ponendo al centro la partecipazione attiva e il bene comune. A differenza dei partiti tradizionali, un partito civico trae la sua forza dal contatto diretto con la comunità, privilegiando temi concreti e locali rispetto alle grandi narrazioni ideologiche. Questo approccio mira a colmare la distanza tra istituzioni e cittadini, tipica delle democrazie rappresentative, e a promuovere un modello più partecipativo e inclusivo.

Un partito civico che si ispira a valori popolari e cattolici combina questa dimensione di prossimità con principi etici radicati nella dottrina sociale della Chiesa, come la solidarietà, la sussidiarietà e la centralità della persona. Ciò significa scegliere chiaramente da che parte stare, ovvero privilegiare politiche che tutelino i più deboli, sostengano le famiglie, promuovano la giustizia sociale e difendano i diritti fondamentali.

Noi siamo un partito popolare che è cosa ben diversa dall’essere populista, e forse vale la pena soffermarci cercando di capire le differenze tra queste parole.

Oggi il populismo si presenta come una risposta semplice a problemi complessi, attirando consensi grazie alla sua capacità di parlare direttamente alle emozioni delle persone. Le emozioni più grottesche, ciò che meglio tradotto si dice “parlare alla pancia della gente,” tuttavia, dietro questa apparenza seducente, si nasconde un pericolo per il tessuto sociale e democratico. E in questi anni possiamo vederlo in modo sempre più chiaro.

Ci sono esempi in Italia come all’estero e un primo segnale chiaro e preciso arriva dall’attacco alle istituzioni, dal preciso intento di togliere e sradicare il Senso dello stato.

I populisti tendono a delegittimare le istituzioni quando non servono i loro interessi, minando la fiducia del popolo verso la democrazia stessa. La magistratura, la stampa, la classe politica vengono presentati come élite corrotte o distanti, in contrapposizione a un leader che si propone come unico vero rappresentante del popolo, così come individua sempre un “nemico” da combattere: l’immigrato, l’élite, l’Europa, i media. Questa continua ricerca del capro espiatorio alimenta l’odio e la sfiducia reciproca, distruggendo il senso di comunità.

I pericoli del populismo

Il populismo si concentra su soluzioni facili e immediate, sacrificando la sostenibilità delle politiche pubbliche. Le promesse di riduzione fiscale senza coperture, i bonus temporanei o le misure spot sono esempi di politiche che privilegiano il consenso a breve termine a scapito del bene comune.

Un governo che taglia le tasse senza un piano di compensazione delle entrate può sembrare popolare, ma a lungo termine provoca un collasso nei servizi pubblici essenziali come sanità, istruzione e trasporti, penalizzando soprattutto le fasce più deboli della popolazione.

Il populismo trasforma la politica in uno spettacolo continuo, dove ciò che conta non è la qualità delle decisioni, ma l’impatto mediatico. La comunicazione diventa più importante della sostanza, con una sovrabbondanza di slogan e promesse vuote.

Esempi ne troviamo anche nei provvedimenti della nostra giunta provinciale che si presenta con il vestito della festa per gli annunci, ma poi – all’atto pratico – dimostra tutta la sua incapacità nel fare programmazione di lungo periodo e di avere una visione coordinata e non settoriale.

Il caso più evidente è quello della scuola dove l’Autonomia ci assegna non solo la possibilità, ma il dovere di sperimentare modelli nuovi e innovativi, capaci di rispondere alle nuove richieste di un mondo che cambia rapidamente. Ciò interpella non solo famiglie e insegnanti, quasi che la scuola sia materia solo per insegnanti e genitori, ma anche chi è chiamato a ridefinire l’intero sistema.

L’approccio populista impedisce di affrontare anche le altre sfide che ci troviamo davanti: come la sostenibilità ambientale, la riforma del sistema sanitario (di cui stiamo ancora aspettando l’apertura di un dibattito serio in consiglio provinciale) e la riduzione delle disuguaglianze.

I populisti preferiscono annunciare grandi progetti infrastrutturali o sociali senza mai portarli a compimento, perché l’obiettivo non è realizzare il progetto, ma mantenere viva l’illusione di un cambiamento continuo e imminente. I sindaci qui presenti potrebbero fare un elenco di queste promesse che non trovano riscontro. (  il tunnel di Tenna, la circonvallazione di Cles la variante di Pinzolo la variante di Campitello di fassa il collegamento S. Martino Rolle…..

Il populismo si alimenta delle paure: paura dell’immigrazione, paura della crisi economica, paura del futuro. Invece di proporre soluzioni concrete, esagera i problemi e li utilizza per creare un clima di tensione e insicurezza.

Noi riteniamo che la sicurezza dei cittadini – negli ambiti dello spazio pubblico ed in quello privato – sia un Bene Comune da tutelare e da promuovere, senza esasperazioni strumentali ma anche senza sottovalutazioni.

Occorrono politiche di formazione, prevenzione e controllo del territorio efficaci e continuative.

Per questo l’Autonomia non può limitarsi a scaricare i problemi sui Sindaci,    quando fa comodo alla Provincia o sullo Stato, del quale peraltro in larga parte è la competenza formale in questo campo. Deve assumere iniziative innovative, usando meglio le proprie competenze. Gli spazi – come abbiamo più volte ricordato – ci sono. A partire, ad esempio, dalla Legge Provinciale n. 8 del 2005 (“Promozione di un sistema integrato della sicurezza e disciplina della Polizia Locale”) o dalle possibilità che potrebbero essere introdotte grazie ad una specifica Norma di Attuazione.

Analogo discorso vale per la gestione dei processi migratori.

Si tratta di un fenomeno ormai strutturale, che tra l’altro corrisponde alle esigenze sempre più evidenti della nostra società e delle nostre imprese.

Ma la Provincia ha deciso di affrontarlo solo in una logica di emergenza e di demagogia.

Ha smantellato la precedente politica di accoglienza diffusa, concentrando in particolare a Trento i richiedenti asilo, riducendo drasticamente i servizi di accompagnamento e facendo crescere così, come era evidente, i problemi di sicurezza dei cittadini.

Ha rinunciato ad esercitare un ruolo attivo e positivo nella gestione del fenomeno. Ha rinunciato, cioè, ad essere una vera Autonomia Speciale, capace di trovare gli strumenti utili per dare risposta alla propria comunità, di fronte ad un fenomeno nuovo e complesso.

Sviluppo e welfare

Nello stesso modo  l’Autonomia dovrebbe riuscire a definire strategie nuove per i due pilastri di una comunità che vuole garantirsi il futuro: il campo dello sviluppo e il campo del welfare.

É vero, il Trentino gode ancora di una buona situazione economica rispetto ad altre realtà italiane. Resiste una certa solidità di fondo, frutto del percorso faticoso dei decenni precedenti e dell’impegno di tante aziende e di tante persone.

Ma non è vero che tutto va per il meglio.

Le sfide globali interpellano in profondità anche il Trentino.

Del resto, anche le ultime elaborazioni dell’Ufficio Studi della Camera di Commercio non mancano di mettere in evidenza criticità e segnali di difficoltà.

Non possiamo far finta di non vederle.

Ciò che invece si nota con evidenza è una fase di scarsa coesione tra tutti gli attori pubblici e privati attorno al tema dello sviluppo.

La vicenda della Camera di Commercio – con la rottura del Coordinamento Imprenditori che ha prodotto – é emblematica di questa fase di scollamento.

La ridondanza di risorse finanziarie del Bilancio Provinciale di questi anni – dovuta in larga parte a fattori “una tantum” e dunque non strutturali e di medio periodo – può tamponare le difficoltà, ma da sola non può riuscire a tracciare una rotta di futuro all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte.

Tutti i settori produttivi sono interessati e coinvolti da queste sfide.

Solo politiche di sistema potranno essere utili a supportarli, mentre notiamo da parte del Governo Provinciale una spiccata tendenza a perseguire politiche rivolte unicamente ai singoli settori di competenza dei singoli assessori.

Una politica economica non può essere questo, perché le sfide sono trasversali e riguardano l’impatto generale della crisi demografica e della transizione digitale ed ecologica, oltre che delle situazioni internazionali.

Dobbiamo rafforzare un’idea di sviluppo organica e unitaria, senza primati corporativi, fondata sulla crescita e sulla formazione delle risorse umane, sull’innovazione, sulla ricerca, sulle dimensioni di filiera tra imprese.

Dobbiamo investire di più sulle politiche positive per il Lavoro, sulla sua qualità e sicurezza, sulla sua stabilità.

Due temi sono per noi prioritari per il Lavoro.

Il primo: costruire intese tra Sindacati, Imprese e Pubblica Amministrazione per recuperare il valore economico degli stipendi, oggi generalmente – anche da noi – sottoposto a inaccettabili forme di decrescita rispetto al costo della vita.

Il rilancio di una fase di contrattazione territoriale legata a innovazioni capaci di accrescere la produttività del lavoro – accompagnata da misure fiscali utili allo scopo – rimane una priorità non solo per l’equità sociale ma anche per la competitività del sistema.

Il secondo: garantire più opportunità ai giovani, sia per valorizzare le competenze dei giovani trentini, sempre più indotti a cercare prospettive fuori provincia, sia per attirare nuove qualificate risorse umane.

Giovani, lavoro, casa

Per i giovani, accanto alla questione lavoro, c’è quella della abitazione che sta diventando una vera e propria emergenza.

L’aumento dei costi delle case e la mancanza di alloggi accessibili stanno creando un divario sempre più profondo tra chi può permettersi di restare e chi è costretto ad andarsene.

Serve un piano serio di edilizia residenziale pubblica, che risponda ai bisogni delle famiglie, dei giovani e delle fasce più deboli della popolazione. oggi ci troviamo di fronte a una sfida cruciale: costruire una visione per il futuro del Trentino, in particolare sul tema dell’abitazione, che non solo risponda alle esigenze del presente ma sappia guardare con lungimiranza ai prossimi cinque/ dieci anni.

È evidente che la questione della casa non può più essere affrontata con misure emergenziali o frammentarie.

È necessario un cambio di passo, un approccio sistemico e ambizioso. La riforma della legge Itea, per esempio; una politica aperta con gli atenei per quel che riguarda studenti universitari; e una pianificazione in ambito turistico per salvaguardare i residenti e un turismo sostenibile.

Sullo sfondo, l’esigenza di ridefinire l’intero comparto del welfare, delle politiche sociali, dell’assistenza per le persone non autosufficiente, delle persone con disabilità, della necessità di una nuova sanità e di interventi a favore della natalità posto che quella demografica è ormai una emergenza che tocca tutte le nostre comunità.

Qualche numero: al 1° gennaio 2023, il 23,3% dei residenti aveva più di 65 anni, contro il 16,6% sotto i 14 anni. L’indice di vecchiaia, che rappresenta il rapporto tra anziani e giovani, è salito a 191,8: ogni 100 giovani sotto i 14 anni corrispondono quasi 192 anziani.

Temi che ho accennato solo per titoli perché altrimenti mi viene imputato di essere rimasta collegata a questo settore che, come assessore del comune di Trento, ho avuto modo di conoscere a fondo e rispetto al quale, in questi mesi, come Campobase abbiamo più volte avuto l’opportunità di intervenire e di sollecitare la giunta provinciale a cambiare marcia perché non è possibile tergiversare e rimandare a domani ciò che non si è capaci di fare oggi.

Tutto ciò che mi sono permessa di condividere con voi, ci porta – anzi rientra – nel tema grande del futuro della nostra Autonomia.

Lo diciamo spesso: la nostra Autonomia non è come tutte le altre. É il frutto di una storia antica di “auto-organizzazione della Comunità” che lo Stato ha riconosciuto.

É “Speciale” non solo perché è costituzionalmente diversa da quella delle altre Regioni italiane, ma perché è il vestito istituzionale di una “Comunità Autonoma” che esisteva prima della formazione dello Stato italiano.

Dunque, non ci è stata concessa, ma riconosciuta.

Una Speciali tra le Speciali la definì Giorgio Napolitano.

Ma oggi vediamo, sia nella pubblica opinione sia dentro le Istituzioni, i segnali preoccupanti di una banalizzazione di questa concezione dell’Autonomia.

Proprio nel tempo nel quale i cambiamenti epocali che viviamo dovrebbero invece portarci a valorizzare la radice comunitaria – e non solo la valenza amministrativa – di questa nostra peculiarità.

Certo, i cambiamenti che stiamo vivendo mettono a dura prova i pilastri della nostra Autonomia: la società di oggi è radicalmente diversa da quella nella quale la nostra Comunità ha elaborato e costruito le premesse culturali e sociali del suo percorso autonomistico.

Le sfide dell’Autonomia

Occorre però investire non solo sulle “celebrazioni” dell’Autonomia (necessarie, ma spesso sempre più rituali e aride), ma su un percorso di rigenerazione del suo spirito e della sua profezia.

Voglio ricordare alcuni concetti che in questi anni Lorenzo Dellai (che ringrazio per il supporto e le sollecitazioni che ha sempre garantito al nostro partito) ha sempre indicato come riferimenti essenziali per il futuro dell’Autonomia.

Una Autonomia partecipata. Non possiamo rassegnarci al destino di una Autonomia vissuta come un “valore” da una sempre più esigua minoranza di cittadini. E neppure ad una idea di Autonomia vissuta solo come apparato che eroga prestazioni di fronte ad esigenze contingenti dei singoli o dei gruppi di interesse.

Se l’Autonomia non è percepita e praticata come valore “comunitario” perderà la sua forza e la sua legittimazione.

Una Autonomia policentrica che non può essere identificata solo con l’apparato e con il potere della Provincia.

Essa deve essere diffusa ed ispirata all’idea di un Trentino policentrico.

Occorre affidare più responsabilità e più potere alla società civile, in tutte le sue espressioni, e agli Enti Territoriali.

In questo senso, io penso che sia giunto il tempo di riprendere in mano il disegno originario delle Comunità di Valle in forma anche parzialmente elettiva.

Demolirlo è stato un errore, che non ha portato nulla di buono. Né ai Comuni – soprattutto quelli piccoli e medi, oggi sempre più soli e in difficoltà – né alle nostre Valli, oggi meno dotate di strumenti unitari di pianificazione e di gestione in tanti ambiti della loro vita collettiva. Ambedue sono oggi molto meno autonomi e molto più legati alle decisioni prese dall’alto.

Una Autonomia innovativa. Perché se l’Autonomia Speciale non elabora e non percorre piste innovative, a cosa serve?

Per copiare modelli e politiche delle grandi pianure o dello Stato, bastano le Autonomie decentrate, non serve la “specialità”.

Noi oggi viviamo ancora di rendita delle grandi innovazioni messe in campo da Kessler e da quella straordinaria classe dirigente del tempo. Ed anche in epoche successive siamo stati un vero Laboratorio.

Ma non si può vivere solo di rendita. Da qualche anno inventiamo assai poco; copiamo da Roma o ci limitiamo a qualche manutenzione delle scelte del passato, talvolta compromettendone lo spirito.

È un rischio che non possiamo correre. Occorre recuperare il gusto delle sfide innovative, su ogni piano.

Bene comune e beni comuni

Accanto al valore dell’Autonomia, voglio aggiungere quella del volontariato e quella attenzione al bene comune e ai beni comuni che rappresenta la “costituzione materiale” della nostra Autonomia.

Mi piace ricordare qui le parole del presidente della Repubblica pronunciate qui a Trento in occasione dell’apertura dell’anno in cui Trento e il Trentino sono stati “Capitale europea e italiana del Volontariato 2024″.

Essere Capitale, ci aveva ricordato Sergio Mattarella, è “un riconoscimento alla cultura della sua gente, alle esperienze attuali di solidarietà e di partecipazione che continuano a sostenere la crescita della comunità”

Questa è la base della nostra comunità e questa è la base della nostra Autonomia. Al di là degli eventi dell’anno appena concluso, forse vale la pena impegnarci a riflettere su quelle parole del Capo dello Stato. Perché, oltre alla legittima soddisfazione di ciò che siamo stati e di ciò che siamo, dobbiamo ragionare e ridefinire anche ciò che saremo nel futuro.

Tenendo conto anche del messaggio finale che ci ha lasciato, in quella occasione, il presidente Mattarella al quale va il nostro saluto affettuoso e il nostro ringraziamento.

I sogni – ci ha detto a febbraio – non sono illusioni. Sono l’orizzonte a cui guardano coloro che nutrono speranza, per vivere la realtà con passione e per coltivare il desiderio di renderla più umana e più giusta.”

E ancora: “La solidarietà genera speranza. E solidarietà e speranza sono strettamente connesse con l’idea di pace, con lo spirito di fratellanza”.

Conclusioni

Mi avvio alla conclusione e lo vorrei fare con tre sottolineature.

La prima riguarda il partito. Campobase è un partito giovane, ma ha già avuto occasione di registrare risultati che ci hanno fatto capire che la strada che abbiamo intrapreso è una strada che gli elettori hanno compreso ed hanno apprezzato. Ci siamo presentati alle elezioni provinciali dello scorso anno e Campobase è stato premiato come secondo partito della coalizione; abbiamo una rappresentanza consigliare di quattro consiglieri che ci carica della responsabilità di dover dare un apporto responsabile, ma al tempo stesso anche netto e senza fraintendimenti, nell’opposizione alla attuale maggioranza provinciale.

Campobase è un partito nuovo e giovane dove in tanti hanno portato il contributo di esperienze passate, di storie politiche importanti. È un partito dove si fa sintesi anche di culture politiche diverse ed è questa una delle nostre forze. Ma siamo, per fortuna, anche un partito dove sta crescendo una classe politica nuova, fatta di persone che quando crollò il Muro di Berlino (e tutto cambiò) non erano ancora nati o al massimo erano alla scuola materna. A questa nuova classe dirigente – lo dico qui perché voglio sia un impegno accolto e condiviso da tutti – dobbiamo affidare i ruoli politici e organizzativi legati alla nuova segreteria. Vorrei essere affiancata da una squadra con molti under40, capace di portare entusiasmo, nuovo linguaggio e nuove sensibilità

Dobbiamo far crescere il partito complessivamente. E pure in ogni realtà territoriale: gli incontri, come quelli organizzati dal Gruppo consigliare in questi mesi, devono diventare appuntamenti fissi, occasioni di riflessione per le comunità, ma anche momenti fecondi per la crescita del partito.

La seconda cosa che vorrei sottolineare è quella della nostra appartenenza a Ada, l’Alleanza democratica e autonomista che Campobase ha contribuito a costituire. Ada è il nostro riferimento ed è il progetto per il quale intendiamo impegnarci anche in vista delle elezioni comunali di maggio. Approfitto per salutare i rappresentanti delle forze politiche di Ada che sono qui a seguire i lavori del nostro congresso. Un’attenzione per la quale sento di doverli anch’io ringraziare

A Rovereto, quando ci siamo trovati come coalizione, c’era grande preoccupazione. Era una battaglia difficile, nulla era scontato. Avevamo paura dell’onda lunga – nazionale e provinciale – di una destra che pare imbattibile. Eppure, ce l’abbiamo fatto. Ciascuno ha saputo anteporre ciò che unisce a ciò che magari poteva dividere; ciascuno ha saputo mettere davanti l’interesse generale a quello di partito; come Campobase abbiamo messo in campo una squadra nuova. E tutto ciò è stato apprezzato dagli elettori. Questa è la strada che intendiamo seguire anche per le amministrative di primavera.

Questa è altresì la strada che ci ha premiato anche alle elezioni politiche per quanto riguarda la vittoria nel collegio senatoriale di Trento.

Saluto Pietro Patton e con lui saluto anche Luigi Spagnolli e Sara Ferrari.

Infine, la terza sottolineatura: quella relativa alla politica.

Stiamo vivendo anni difficili e complicati. Ciascuno di noi si è trovato di fronte questioni che non avevamo forse mai considerato e rispetto alle quali non solo non siamo attrezzati, ma ci rendiamo anche conto che la soluzione non dipende da noi: non possiamo far niente. Mi riferisco ovviamente alla Pandemia e alla guerra, mai così vicina a noi. Due avvenimenti che hanno cambiato non solo il nostro modo di comportarci (pensiamo ai due anni del Covid, con l’obbligo di stare lontani gli uni dagli altri), ma anche di guardare il futuro. Nulla – pare – dipende da noi; altri hanno le leve per cambiare il senso non solo della storia, ma anche del nostro quotidiano,

Tutto questo ha portato a sentimenti di rassegnazione. Ho trovato tante persone che mi hanno detto: “perché impegnarmi, se non posso cambiare il destino che abbiamo davanti?”. La rassegnazione è il peggior nemico della politica che vuole cambiare il corso delle cose. La rassegnazione allontana dall’impegno, deprime la voglia di mettersi in gioco, cancella l’idea che si possa fare diversamente e che ci si possa mettere in gioco.

Eppure, non possiamo stare fermi. Ce lo ricorda continuamente papa Francesco e lo ha sottolineato anche nel messaggio che ha inviato nel maggio scorso al Festival dell’Economia.

Mai come oggi l’uomo anela al bene primario della pace, che il mondo sembra aver dimenticato;

percepiamo una crisi dei valori e una tiepidezza degli ideali;

ci confrontiamo con un pervasivo progresso della tecnologia e delle intelligenze artificiali che stanno modificando le nostre visioni antropologiche;

assistiamo pure a cambiamenti climatici e situazioni di marcata disuguaglianza economica e sociale, che ci richiamano all’urgenza di trovare risposte nuove e lungimiranti per la custodia della nostra Madre Terra, la lotta alla povertà e lo sviluppo integrale dei popoli”.

Questo l’impegno che papa Francesco chiede non solo ai cristiani, ma a tutte le persone di buona volontà. L’impegno contro la rassegnazione: per la pace, per il clima, per una maggiore giustizia sociale.

C’è però, per quanto ci riguarda, anche un ultimissimo spunto di riflessione.

La rassegnazione, infatti, è il contrario di quanto prevede il concetto di autonomia dove ciascuno deve essere protagonista; dove la responsabilità deve essere condivisa e partecipata; dove si devono poter sperimentare cose nuove perché l’ordinarietà è l’esatto contrario dell’autonomia.

Vorrei chiudere queste mie riflessioni ricordando che l’autonomia non è solo il contrario di rassegnazione. L’autonomia può e deve essere un volano di speranza.